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Costi Di Agenzia in Cina: Il Caso Delle Soes

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UNIVERSITÀ COMMERCIALE LUIGI BOCCONI

Facoltà di Economia

Corso di Laurea in Economia Aziendale e Management

Relazione principale-­‐agente e costi di agenzia in Cina: il caso delle State-­‐Owned Enterprises

DOCENTE TUTOR: Prof. Maurizio DALLOCCHIO
Giulia BARRESI
(matricola 1686849)

Anno Accademico 2014/2015

“Quando la Cina si sveglierà, il mondo tremerà”.
Napoleone Bonaparte, 1816

INDICE 1. INTRODUZIONE ..................................................................................................................................... 2 2. RAPPORTO PRINCIPALE – AGENTE E COSTI DI AGENZIA: UNA RASSEGNA TEORICA .... 4 2.1 Una panoramica sui costi di agenzia: dalla separazione tra ownership e control, ai costi di agenzia dell’equity e del debito. ....................................................................................... 4 2.2 I conflitti di agenzia ...................................................................................................................... 8 2.2.1 Moral hazard. ............................................................................................................................................... 8 2.2.2 Earnings retention conflicts. ............................................................................................................... 10 2.2.3 Time horizon conflicts. .......................................................................................................................... 10 2.2.4 Managerial risk adversion. .................................................................................................................. 11 2.3 Tipologie di costi di agenzia ..................................................................................................... 12 2.3.1 Monitoring costs. ..................................................................................................................................... 12 2.3.2 Bonding costs. ........................................................................................................................................... 13 2.3.3 Residual loss. ............................................................................................................................................. 14 2.4 Strumenti di corporate governance ...................................................................................... 15 2.4.1 Board of directors. ................................................................................................................................... 16 2.4.2 Managerial labor market. .................................................................................................................... 17 2.4.3 Corporate financial policy. ................................................................................................................... 18 2.4.4 Remunerazione ed incentivi ai manager. ....................................................................................... 20 2.4.5 Il controllo del mercato. ........................................................................................................................ 22 2.5 L’impatto sul valore aziendale: l’esempio dell’over-­‐investment .................................. 23 3. I COSTI DI AGENZIA IN CINA: IL CASO DELLE STATE-­‐OWNED ENTERPRISES. ............... 26 3.1 Il contesto economico-­‐istituzionale cinese. ........................................................................ 26 3.2 Il background istituzionale delle SOE. .................................................................................. 29 3.3 Principal-­‐agent problem nelle SOE. ....................................................................................... 34 3.3.1 Il rapporto Stato – manager SOE ...................................................................................................... 34 3.3.2 Il rapporto Stato – cittadini. ............................................................................................................... 39 3.4 Corporate governance in Cina: panoramica e prospettive delle imprese statali .. 43 4. CONCLUSIONI ....................................................................................................................................... 46 Bibliografia .................................................................................................................................................. 48

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1. INTRODUZIONE

Questo lavoro si propone di analizzare l’argomento del rapporto PrincipaleAgente, dei relativi conflitti di interesse e dei costi di agenzia che ne derivano.
E’ un tema interessante, se si pensa a come tali conflitti ed i relativi costi possano impattare sul valore aziendale e, in taluni casi, sul benessere di un’intera economia. Quest’ultima circostanza si verifica, in particolare, nelle economie principalmente controllate dall’apparato Stato, come nel caso della
Repubblica Popolare Cinese. Il seguente lavoro si concentra, per l’appunto, sulle State-Owned Enterprises (SOE) in Cina, ponendo l’attenzione sui due conflitti dominanti, identificati nei rapporti che intercorrono rispettivamente tra
Stato e manager delle SOE, e tra Stato e cittadini. Nel primo caso, lo Stato, rappresentato dal Partito Comunista Cinese (PCC) agisce da Principale, delegando il manager, nonché l’Agente, come “gestore” dell’operato delle SOE; nel secondo caso, lo stesso Governo agisce, invece, da Agente, in quanto esso stesso amministratore delle imprese statali per conto dei cittadini cinesi, i quali possono essere considerati shareholders, il cui apporto di capitale consiste nel pagamento delle imposte allo Stato. Dalla relazione tra il PCC e il top management dell’impresa statale scaturiscono attività volte ad influenzare, da un lato, l’operato della dirigenza al fine di fare gli interessi del Partito, e dall’altro, i processi di valutazione delle performance gestiti dall’organo statale
SASAC (State-owned Assets Supervision and Commission): il risultato si traduce in negligenza manageriale, spreco di tempo e di risorse, trascuratezza degli obiettivi di profittabilità delle SOE. Il disaccordo tra obiettivi dello Stato
(che sembra non voler rinunciare, ad ogni costo, alla leadership economica) e aspettative dei cittadini (i quali investono nell’economia del paese nella speranza di trarne dei benefici, non tanto pecuniari, quanto relativi allo sviluppo della stessa), invece, impatta negativamente sul benessere dell’intera

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economia, sotto forma di limitazioni allo sviluppo del settore privato, di aumento del tasso di investimento, di incremento del tasso di inflazione, di aumento delle esportazioni e dei relativi attriti commerciali.
La trattazione è suddivisa in due sessioni. La prima consiste in una rassegna teorica sul tema dei costi di agenzia, dei conflitti di agenzia e dei meccanismi di corporate governance volti al contenimento degli stessi. La seconda parte, invece, analizza il tema ponendo l’attenzione sul caso delle imprese statali cinesi: ad

una

prima

generale

introduzione

sul

contesto

economico-

istituzionale cinese e sul background istituzionale delle SOE, seguiranno i paragrafi relativi all’analisi dei rapporti Principale-Agente e dei connessi costi di agenzia, ed una panoramica sulla corporate governance delle imprese statali.

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2. RAPPORTO PRINCIPALE – AGENTE E COSTI DI AGENZIA: UNA RASSEGNA TEORICA 2.1 Una panoramica sui costi di agenzia: dalla separazione tra ownership e control, ai costi di agenzia dell’equity e del debito. Quando ci si trova ad analizzare le relazioni che si instaurano tra i portatori d’interesse di un’azienda, occorre tener presente che ciascuno di essi sia mosso da interessi differenti, e tenda a partecipare alla vita d’impresa con il dominante obiettivo di massimizzare la propria personale utilità. E’ in un contesto di questo genere che possono naturalmente insorgere dei conflitti di interesse. Si parla, a tal proposito, di “relazioni di agenzia”.
Jensen e Meckling, tra i primi ad affrontare questo tema, definiscono la
“relazione di agenzia” anche “rapporto Principale-Agente”. Nella loro più celebre opera, “Theory of the Firm” (1976), tale rapporto è riconducibile a “un contratto” in base al quale l’azionista (principal) assume i manager (agent) delegando loro determinate attività e responsabilità decisionali. Sebbene dalla definizione dei due autori si possano trarre dei riferimenti a una vasta molteplicità di rapporti - giuridici, professionali ed economici (il termine
“contratto” è volutamente generico) - la “Theory of the Firm” si focalizza, invece, principalmente sulla relazione tra gli shareholders e il top management di un’azienda.
In particolare, il rapporto fra le suddette parti può dar vita a conflitti di interesse, anche detti “di agenzia”, ogniqualvolta il management, responsabile delle scelte operative (poiché in questo senso “delegato” dagli shareholders), perseguendo piuttosto obiettivi di benessere personale per massimizzare la propria utilità, agisce in contrasto con gli interessi dei soci, che si assumono il rischio e apportano il capitale.

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Dalla teoria dell’agenzia discende, come corollario, che i principali (gli azionisti) non sempre sono in grado di controllare in modo efficace l’operato dell’agente
(il manager). Ciò viene in rilievo soprattutto nelle società a proprietà diffusa, come ad esempio le società per azioni quotate nei mercati regolamentati.
Nelle imprese di minori dimensioni o con un azionista di controllo, invece, l’operato del management viene più agevolmente monitorato.
Quanto sopra risulta possibile anche perché l’agente ha a sua disposizione più informazioni rispetto al principale poichè direttamente coinvolto nelle day by day activities dell’azienda. In un contesto di asimmetrie informative, il manager può approfittare di queste ultime per assumere comportamenti opportunistici quali:


acquisti di asset improduttivi (uffici eccessivamente lussuosi, benefit personali privi di utilità per l’azienda, quali automobili, smartphones, proprietà di lusso) (Jensen e Meckling, 1976)



sostegno a progetti di investimento sub-ottimali (Myers, 1977) deficit d’impegno e basso livello di committment in azienda (Ang, Cole e
Wuh Lin, 1999).

Dai problemi di agenzia derivano ingenti costi per l’azienda, detti per l’appunto
“costi di agenzia”. Essi sono il risultato della somma algebrica dei monitoring costs (derivanti dall’attività di monitoraggio dei comportamenti dell’agent, svolta dal principal), dei bonding costs (riconducibili all’attività dell’agent, volta a convincere il principal della bontà del suo comportamento) e della residual loss (ovvero la riduzione di guadagno per lo shareholder, quale risultante dalla differenza tra il profitto del progetto scelto dal manager e il maggior ricavo che egli avrebbe invece ottenuto qualora il manager avesse optato per l’alternativa più profittevole) (Jensen e Meckling, 1976). Per un maggior approfondimento dei “costi di agenzia”, si rinvia al paragrafo 2.3.

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Occorre tener presente che il rischio di comportamenti opportunistici e dei costi che ne possono derivare, aumenta in maniera considerevole quando i manager, che hanno il compito di avviare e implementare nuovi importanti progetti d’investimento, non sono i principali residual claimant, e non hanno cioè diritto ad una consistente fetta del profitto derivante dalle decisioni d’investimento (Fama e Jensen, 1983). In queste situazioni i controlli sul comportamento del top management assumono una valenza strategica.
Si consideri, a tal proposito, un processo decisionale articolato nelle seguenti fasi in successione (Fama e Jensen, 1983):
1. initiation (proposta del manager)
2. ratification (decisione in merito al progetto proposto)
3. implementation (esecuzione dello stesso)
4. monitoring (controllo e misurazione delle performance)
Le fasi 1 e 3 costituiscono il c.d. “decision management” e i punti 2 e 4 fanno riferimento al “decision control”. Come sostenuto da Fama e Jensen nel loro lavoro “Separation of ownership and control” (1983), l’utilizzo di sistemi decisionali concentrati, vale a dire quei sistemi dove decision management e decision control coincidono, rappresenta un’efficace soluzione solo per le piccole aziende dove il manager è spesso anche proprietario.
Nel caso invece delle c.d. aziende “complesse”, le informazioni necessarie ai processi decisionali sono distribuite a più livelli nell’organizzazione e il top management è separato dalla proprietà, peraltro frammentata: ciascun azionista possiede, cioè, una modesta partecipazione aziendale, e non ha alcun incentivo ad esercitare un’attività di vigilanza sull’operato manageriale, dal momento che la partecipazione ai processi decisionali ed il loro monitoraggio costituiscono un onere troppo ingente per il singolo shareholder. In questi contesti è preferibile una disgiunzione tra decision management e control, in

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modo tale da limitare il potere degli individual agents di nuocere agli interessi dei residual claimants.
Da queste considerazioni risulta chiaro come il tema della separazione tra ownership e control sia più che mai legato a quello dei costi di agenzia.
Quando il manager è anche proprietario dell’azienda, si assume che tali costi siano pari a zero: il manager-proprietario, infatti, prende decisioni operative che massimizzano la sua utilità, coincidente con quella dell’impresa (Jensen e
Meckling, 1976). Per fare ciò, si avvale non soltanto di mezzi pecuniari, ma anche di strumenti non-pecuniari quali, ad esempio, l’attenzione alla disciplina degli impiegati e la coltivazione con gli stessi i rapporti caratterizzati dal rispetto e dalla stima reciproca.
Tanto minore è la percentuale di equity detenuta dal manager, tanto maggiori saranno, invece, i costi di agenzia (Jensen e Meckling, 1976). Difatti, da un lato, l’utilità del manager si discosterà sempre più da quella dell’azienda, spingendolo ad investire somme di proprietà della società in benefit personali; dall’altro, gli shareholders cercheranno di investire il più possibile in sistemi di monitoraggio, al fine di scongiurare l’opportunismo del manager (Jensen e
Meckling, 1976). Si parla, in tal senso, di “costi d’agenzia dell’equity”.
Da questo ragionamento si potrebbe trarre l’erronea conclusione che la soluzione ottimale per l’azienda sia possedere una struttura proprietaria al
100% manageriale e finanziarsi esclusivamente con debito. Sebbene sinora si sia fatto

riferimento

unicamente

al

rapporto

tra

shareholders

e

top

management, occorre porre l’attenzione a questo punto a un’ulteriore e non trascurabile relazione complessa, quella tra il top management e i debtholders.
Dai conflitti d’interesse che si instaurano tra queste due parti scaturiscono, infatti, i costi di agenzia del debito, che consistono principalmente in un aumento del tasso di interesse imposto contrattualmente dai creditori, con impatto negativo sulle decisioni di investimento future (Jensen e Meckling,

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1976).

In

particolare

assetsubstitution:

il

viene

manager

in

rilievo

predilige

il

problema

del

gli

interessi

riskshifting

degli

o

shareholders

intraprendendo dei progetti di investimento rischiosi, consapevole del fatto che, qualora questi ultimi non vadano a buon fine, le conseguenze negative e pecuniarie graverebbero principalmente sui creditori, che vedrebbero ridursi il valore dell’azienda sul quale rivalersi, e non sugli azionisti, in quanto questi non perderebbero più di quanto effettivamente investito.
Agli autori della “Theory of the Firm” si deve la realizzazione di un modello che indica la struttura ottimale del capitale, corrispondente a quel livello della leva finanziaria che minimizza i costi di agenzia dell’equity e del debito.

2.2 I conflitti di agenzia I conflitti di agenzia nascono da conflitti di interesse tra le due parti di un contratto, e, come tali, in astratto sono da considerare illimitati. Nonostante ciò, gli studi teorici ed empirici si sono concentrati su quattro specifiche aree di interesse. In questa sezione si discuterà di tali temi chiave, con il sostegno delle ricerche empiriche in merito condotte.

2.2.1 Moral hazard. Jensen e Meckling (1976) hanno fornito una prima spiegazione dei conflitti di agenzia basata sul c.d. azzardo morale, ovvero quella condizione in cui un soggetto (in questo caso il manager), in quanto esentato dalle eventuali conseguenze economiche negative del suo comportamento, agisce facendo esclusivamente il proprio interesse, prendendo decisioni che possono incidere negativamente sul benessere dell’azienda.
Assumendo che un singolo manager possa essere al contempo proprietario dell’azienda, i due autori hanno sviluppato un modello in base al quale

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l’incentivo del manager a perseguire il suo personale interesse, favorendo il conseguimento di benefit privati invece che investimenti profittevoli per l’azienda, è inversamente proporzionale alla percentuale di partecipazioni aziendali dallo stesso detenute. Al diminuire delle partecipazioni detenute dal top management, inoltre, si rileva una forte mancanza di sforzo e il livello di committment dei manager decresce esponenzialmente.
Shleifer e Vishny (1989), d’altro canto, sostengono che, piuttosto che a non investire, il manager è di norma più incentivato a intraprendere progetti di investimento che si adattano al meglio alle sue skills personali: in tal modo, oltre ad accrescere il valore dell’azienda, si incrementa anche il potere contrattuale del manager e con esso la sua remunerazione, poiché sostituirlo in quanto risorsa chiave diventa un costo eccessivo per l’azienda.
L’azzardo morale si manifesta in maniera più preponderante nelle imprese di grandi dimensioni (Jensen, 1983). In queste ultime, infatti, sono sì più presenti sistemi di monitoraggio esterno, ma, al contempo, con la dimensione aziendale cresce esponenzialmente anche il grado di complessità delle relazioni interne, e con esso la difficoltà di controllo sull’operato del top management e i relativi costi di agenzia. Infine, lo stesso Jensen (1986) sostiene che i problemi relativi all’azzardo morale sono più evidenti nel caso in cui i manager abbiano a loro disposizione rilevanti quantità di free cash flow, senza che l’uso di queste ultime sia disciplinato dai proprietari: in siffatta ipotesi aumenta la probabilità che questo denaro sia investito in progetti che soddisfino più gli interessi personali del manager che quelli aziendali, e diventa sempre più complesso monitorare l’impiego di questi fondi.

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2.2.2 Earnings retention conflicts.

Mentre per gli shareholders è preferibile la distribuzione dei free cash flow d’azienda, i manager, invece, preferiscono di norma trattenere gli utili (Jensen,
1986).
Dagli studi inerenti alle strutture retributive si è infatti tratta la conclusione che la retribuzione manageriale è una funzione crescente della dimensione aziendale: ciò incentiva il top management a porsi come obiettivo non tanto l’incremento degli

utili

per

gli

azionisti,

quanto

piuttosto

la

crescita

dimensionale della società (Jensen e Murphy, 1990). I manager traggono benefici non solo in termini di remunerazione, dunque pecuniari, ma anche di prestigio e potere. La crescita dimensionale, inoltre, riduce il livello di rischio specifico interno

all’azienda,

e quindi

rafforza la sicurezza del

lavoro

manageriale. D’altro canto, la teoria della finanza impone che gli investitori siano già in possesso di portafogli diversificati, in quanto meno rischiosi, dunque un’ulteriore diversificazione aziendale, volta alla crescita dell’impresa, potrebbe essere incoerente con i loro interessi. La ritenzione degli utili riduce sì la necessità di ricorrere a finanziamenti esterni (ad esempio, da parte degli istituti di credito), qualora si decidano di intraprendere nuovi progetti di investimento, ma, come anche sottolineano Lang e Stulz (1994), i rendimenti azionari nelle imprese non diversificate sono maggiori rispetto a quelli delle aziende che hanno tentato di ridurre la loro esposizione al rischio mediante la diversificazione. L'evidenza empirica suggerisce, dunque, che tale strategia è dannosa per la ricchezza degli azionisti.

2.2.3 Time horizon conflicts. I conflitti di interesse tra manager e azionisti insorgono anche in relazione al timing dei free cash flows. In tal senso, gli shareholders si preoccupano di monitorare i flussi di cassa aziendali sia nel breve che nel medio-lungo

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termine. D’altro canto, i manager si interessano ai flussi di cassa prodotti in costanza del

proprio

rapporto

di

lavoro

con

l’azienda,

favorendo

di

conseguenza progetti di investimento caratterizzati da un net present value
(NPV) positivo nel breve termine, piuttosto che nel medio-lungo. Il risultato è che questo tipo di conflitti manifestano gli effetti più negativi per l’azienda, in termini di costi, quando si avvicina il momento della conclusione del contratto di lavoro, poiché dalla chiusura dello stesso in poi il manager non può più beneficiare dei profitti derivanti dai progetti intrapresi.
Un esempio in tal senso viene fornito da Dechow e Sloan (1991): quando il manager si approccia al pensionamento, gli investimenti in Ricerca e Sviluppo tendono a diminuire, poiché questi ultimi riducono di norma i guadagni dei top executives nel breve periodo. Ciò spiega le considerazioni di cui sopra. Inoltre, spinto dalla

vicinanza

al

pensionamento,

il

manager

potrebbe

essere

incentivato ad utilizzare delle pratiche contabili “soggettive” e a manipolare i dati in bilancio, in particolare gli utili, per trarne dei vantaggi in termini di bonus retributivi (Healy, 1985). Non a caso, gli utili contabili tendono ad essere significativamente più elevati proprio nell'anno precedente al pensionamento del CEO (Weisbach, 1988).

2.2.4 Managerial risk adversion. La maggior parte dei top executives sono strettamente legati all’azienda in cui lavorano, dunque il loro reddito è in gran parte dipendente dalle performance della stessa (Denis, 2001). Essi ambiscono alla minimizzazione del rischio sotteso alle azioni; pertanto, evitano di intraprendere progetti ad alto rischio e perseguono, invece, progetti diversificati che ne riducono il livello (Jensen,
1986). I top executives di una società ad alto rischio, poiché ad esso avversi, preferiranno investire in azienda un ammontare esiguo del loro patrimonio, e ciò suggerisce un’inversa proporzionalità tra grado di concentrazione della

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struttura proprietaria e rischio sotteso alle azioni (Demsetz e Lehn, 1985).
L’avversione al rischio può influenzare anche la financial policy dell’impresa: sebbene ci si aspetti che un livello elevato di debito riduca i costi di agenzia
(Jensen, 1986) e porti con sé i benefici dello scudo fiscale (Modigliani e Miller,
1958), i manager avversi al rischio preferiscono di norma finanziarsi con equity, in quanto con il debito aumenta il rischio di bancarotta e default aziendale (Brennan, 1995).

2.3 Tipologie di costi di agenzia Gli agency costs sono la somma algebrica di: monitoring costs, bonding costs e residual loss (Jensen e Meckling, 1976).

Monitoring
Costs

Bonding
Costs

Residual
Loss

Agency
Costs

2.3.1 Monitoring costs.

Si generano quando il principale tenta di monitorare o limitare le azioni dell’agente (Jensen e Meckling, 1976). Sono, cioè, tutte quelle spese in cui incorrono gli shareholders al fine di controllare, ricompensare e misurare le attività del manager. Il monitoraggio può essere gestito anche da parti terze, quali l’intero mercato dei capitali, il managerial labor market e le agenzie di regolamentazione, ad

esempio

commissioni

statali

o

agenzie

di

regolamentazione bancarie.
I sistemi di monitoraggio interno sono, invece, forniti dai boards of directors dell’azienda (Fama e Jensen, 1983) e dai blockholders, le cui consistenti partecipazioni finanziarie possono essere sufficienti per superare il problema del free-riding (Grossman e Hart, 1982; Shleifer e Vishny, 1987).

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Quante risorse impiegare nel monitoraggio dei manager è una scelta propria degli azionisti o di soggetti terzi, come ad esempio gli istituti di credito (Ang,
Cole e Wuh Lin, 2000). Queste decisioni variano tenendo conto dello stato del patrimonio aziendale. Quando quest’ultimo è in crescita, si riduce il controllo sulle attività

dei

manager

e,

di

conseguenza,

le

risorse

non

sono

necessariamente allocate con efficienza: il manager acquisisce eccessiva indipendenza, con il rischio che prediliga esclusivamente quei progetti che gli conferiscono (anche a scapito di un maggiore profitto) più consistenti benefit personali (a patto che questi ultimi abbiano un valore maggiore della quota residua di profitto che spetta al manager stesso dopo aver pagato l’investitore)
(Favara, 2012). Se l’azienda è in fase di recessione, invece, si fortifica il monitoraggio degli investitori sui manager: questo consentirà un’accelerazione dell’economia, poiché aumenta il NPV del singolo progetto (Favara, 2012).
Tale ragionamento è in linea con la teoria di Jensen (1996) dei free cash flows, ma non con il modello standard riguardante le frizioni di credito, che associa al miglioramento del patrimonio netto aziendale la riduzione dei costi di agenzia
(Favara, 2012).
Tuttavia, occorre tener presente che una supervisione troppo severa distrugge la motivazione dei manager ex-ante, ed essi, di conseguenza, intraprendono pochi progetti

(seppur

profittevoli)

(Favara,

2012).

Infatti,

all’inizio,

i

monitoring costs sono sostenuti dagli shareholders, ma nel lungo termine gravano sui manager, giacché la remunerazione di questi ultimi è determinata tenendo in considerazione la copertura dei suddetti costi (Fama e Jensen,
1983).

2.3.2 Bonding costs. Secondo la “Theory of the Firm”, sono quei costi sostenuti dall’agent nel tentativo di convincere il principal della bontà del suo comportamento.

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Alcune tipologie di bonding costs includono, ad esempio, le garanzie contrattuali che prevedono la certificazione dei bilanci da parte di una società pubblica esterna all’azienda e tutte le limitazioni al potere decisionale del manager (le quali, comunque, impongono costi anche sulla società, dal momento che, oltre a limitare il pericolo che i manager danneggino gli azionisti per trarne un personale vantaggio, frenano anche la loro capacità di sfruttare appieno alcune opportunità di investimento redditizie).
Anche i principals incorrono nei suddetti costi, investendo in meccanismi di incentivazione che assicurano che l’agent si comporti coerentemente ai loro interessi (Hoskisson,

Castelton

e

Withers,

2009).

In

genere

si

tratta

principalmente di stock-based compensation (opzioni sulle azioni della società).
Quando i principali proprietari della società sono soggetti istituzionali, questi di regola optano per strumenti di incentivazione di tipo bonding, quali le stock options: essendo in possesso di vasti e diversificati portafogli, il monitoraggio diretto sulle azioni del manager risulta infatti per tali entità molto costoso
(Black, 1992). Invece, se uno o pochi soggetti possiedono la società, la remunerazione dei manager non è eccessiva, poiché hanno più interesse a monitorare direttamente i top executives (Zajac, 1990). Ciò suggerisce l’esistenza di un trade-off tra monitoring e bonding costs (Lippert e Moore,
1994).

2.3.3 Residual loss. Si

considera

tale

l’equivalente

in

moneta

della

perdita

in

benessere

conseguente all’impossibilità di riuscire a conciliare gli interessi divergenti di principal e agent.

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2.4 Strumenti di corporate governance Nel 1992 il Comitato di Cadbury definisce la corporate governance come "il sistema grazie al quale le società sono dirette e controllate" (Cadbury
Committee, 1992).
I meccanismi di governance sono finalizzati ad equilibrare i vari interessi degli stakeholders o, come la International Financial Corporation afferma, "le relazioni tra

management,

Consiglio

di

Amministrazione,

azionisti

di

maggioranza, azionisti di minoranza e altri soggetti interessati".
L’espressione corporate governance può assumere due prospettive (Lazzari
2001) a seconda che si faccia riferimento a meccanismi e strumenti di allocazione e gestione del potere interni all’impresa, oppure ad istituzioni e meccanismi esterni che presiedono all’efficienza dell’attività dell’azienda.
La letteratura suddivide i meccanismi di corporate governance in interni ed esterni: nel presente lavoro si discutono alcuni di essi, ponendo l’attenzione su quelli più rilevanti in relazione alla risoluzione dei conflitti di agenzia e al contenimento dei relativi costi. A tal fine, sono due le condizioni richieste per considerare efficace un meccanismo di corporate governance: quest’ultimo dovrebbe, in primo luogo, ridurre il divario tra gli interessi di manager e azionisti e, inoltre, avere un impatto significativo su performance e valore aziendale (Denis, 2001).
Le imprese tenderanno ad utilizzare certi meccanismi piuttosto che altri, basandosi sull’osservazione di alcune specifiche caratteristiche che variano di azienda in azienda: da ciò deriva che la soluzione ottimale per una società non è la stessa per un’altra, pur appartenente al suo stesso settore (Himmelberg et al., 1999). Se uno o più meccanismi di governance sono meno utilizzati rispetto agli altri, questi ultimi possono essere incrementati nel loro utilizzo, giovando in tal modo all’equilibrio dei processi decisionali e dunque alla performance aziendale (Agrawal e Knoeber, 1996).

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2.4.1 Board of directors. Eletto dall’assemblea dei soci durante l’AGM (annual general meeting), l’obiettivo primario del Consiglio di amministrazione è la tutela degli interessi degli shareholders. I Consigli di amministrazione dovrebbero, insomma, fungere da sistemi di monitoraggio per scongiurare conflitti sia interni al top management, che tra manager e azionisti.
L’organo, a causa della sua natura collegiale, non può occuparsi della direzione quotidiana dell'azienda, di cui, invece, si occupa il top management; quest’ultimo, però, è comunque sottoposto alle decisioni del Consiglio, che si occupa di nominare e licenziare i manager, di controllarne l’operato, di definirne la remunerazione.
La composizione del board varia di azienda in azienda, e non esiste alcuna regola generale riguardante il numero di membri dello stesso (Jensen 1993).
Da tener presente il fatto che, in linea generale, l’efficacia del board è inversamente proporzionale alla sua dimensione (Jensen, 1993): i Consigli numerosi possono essere più lenti nel reagire alle situazioni che richiedono la formulazione di una soluzione immediata e perdono la loro capacità di essere efficienti nel loro funzionamento; i rapporti tra i membri del board possono essere poco trasparenti e conflittuali, con conseguente rallentamento del processo decisionale. Yermack (1996) e Eisenberg, Sundgren e Wells (1998) hanno dato una conferma empirica alle considerazioni di Jensen, osservando una relazione inversa tra le dimensioni del Consiglio di amministrazione ed il valore aziendale di grandi e piccole imprese.
Un altro importante aspetto da tenere in considerazione è la partecipazione o meno del management alle riunioni del Consiglio. Infatti, al board spesso appartengono i top executives dell’impresa, in particolare il CEO. Ma, secondo
Fama e Jensen (1983), corporate boards efficaci separano le due funzioni di control e decision management, e dovrebbero essere composti in maggioranza

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da amministratori esterni, che ricoprono, cioè, posizioni manageriali in altre imprese: infatti, se il CEO influenza il Consiglio (spesso egli è anche presidente del board, e si parla a tal proposito di CEO duality), viene a mancare il senso ultimo dello stesso, diventa più complesso separare le due funzioni di cui sopra a causa dell’insorgere di conflitti d’interesse, e ciò grava irrimediabilmente sul benessere degli azionisti. La tutela della propria reputazione e gli interessi economici sottesi alle partecipazioni azionarie possedute sono i fattori che incoraggiano gli amministratori esterni (non executive directors) ad effettuare un’efficace supervisione dei processi decisionali (Fama e Jensen, 1983). Questo è evidente soprattutto in periodi di crisi, quando occorre prendere decisioni difficili e, spesso, sostituire il management (Denis, 2001).

2.4.2 Managerial labor market. La remunerazione dei manager aziendali tiene conto di precise stime di mercato che misurano, sulla base di analisi preliminari di altre aziende, l’allineamento del loro operato con gli interessi degli azionisti (Fama, 1980).
Perché il managerial labor market sia uno strumento efficiente per la valutazione della condotta, delle performance e dunque della remunerazione dei manager, è opportuno tener conto di alcune accortezze.
In primo luogo, la tendenza dei manager a favorire i propri interessi su quelli dell’azienda non può essere misurata a priori, in quanto varia nel tempo, ed è dunque possibile trarne una valutazione più o meno accurata tramite la raccolta di informazioni relative a performance sia passate che attuali. In tal senso, è opportuno valutare tutti i potenziali conflitti di agenzia di cui sopra: dal moral hazard, alla tendenza alla massimizzazione della dimensione aziendale (earningsretention), dall’età dei manager e la quantità di tempo che trascorreranno ancora all’interno dell’azienda, alla loro avversione al rischio e propensione alla diversificazione.

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Nonostante i suoi limiti, il mercato del lavoro manageriale può essere un fattore importante nella riduzione dei costi di agenzia derivanti dalla separazione tra proprietà e controllo nelle forme societarie. Esso fornisce un incentivo utile per incoraggiare il top management a prendere decisioni vantaggiose per gli interessi degli azionisti. Infatti, il mercato del lavoro si avvale, a tal fine, dei dati relativi alle passate performance per definire le opportunità di lavoro e i livelli di remunerazione per i dirigenti (Gilson, 1989).
Kaplan e Reishus (1990) hanno constatato come i manager di società che hanno subito un taglio dei dividendi, hanno meno probabilità di ottenere in futuro il ruolo di amministratori esterni in altre imprese, in quanto sono da esse percepiti come incompetenti.
Tali studi tendono a indicare che i managerial labor markets incentivano i manager a massimizzare il valore degli azionisti, ma altre ricerche, incluse le conclusioni di Kaplan e Reishus (1990), suggeriscono che la loro funzione di monitoraggio risulta efficace principalmente sui manager non-performanti.

2.4.3 Corporate financial policy. Le decisioni relative alla struttura finanziaria e la relativa policy hanno anch’esse rilevanti implicazioni per quanto concerne i conflitti di agenzia ed i relativi costi. Basti pensare che, ad esempio, per prevenire gli earnings retention conflicts di cui sopra, la corretta amministrazione dei free cash flows d’impresa ha un ruolo determinante, in quanto il problema scaturisce proprio dalla cattiva gestione di questi ultimi di cui è responsabile il manager. Il debito, in tal senso, riveste il ruolo di meccanismo di bonding per il top management di un’azienda

(Jensen,

1986),

specialmente

quando

quest’ultima

è

caratterizzata da un tasso di crescita contenuto o opera in un settore stabile, o ancora qualora vi sia un’elevata disponibilità di flussi di cassa (Harris e Raviv,
1991). In queste condizioni, infatti, il management tende a sovra-investire in

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progetti con VAN negativo, e si sente al contempo pericolosamente protetto, in quanto la disponibilità di flussi di cassa lo rassicura a fronte di potenziali conseguenze negative, derivanti dalle sue scelte sub-ottimali; quando si incrementa il rapporto di indebitamento, invece, egli sarà più incentivato ad intraprendere progetti di investimento firm specific, in quanto alla conduzione di una cattiva gestione in aziende fortemente indebitate, corrisponde un elevato rischio di default, e ad esso vengono associati non solo ingenti costi di dissesto, ma anche l’onere reputazionale legato alla bancarotta. D’altro canto, un rapporto di indebitamento elevato può servire ad azionisti e altri creditori dell’impresa da incentivo per controllare l’operato della dirigenza (Shleifer e
Vishny, 1987).

In sintesi, la struttura finanziaria, insieme con quella

proprietaria, costituisce sia un sistema di incentivo che un vincolo per il top management (Hart, 1995), e questo ha un impatto positivo sui costi di agenzia. Occorre, tuttavia, tenere presente che l’aumento della leva finanziaria non sempre incide sugli agency costs riducendoli: infatti, sebbene disciplini il management, il debito (che sia esso bancario, o in forma public) inserisce nel nexus of contracts di cui parlano Jensen e Meckling nella “Theory of the firm” un’altra tipologia di stakeholders, accanto ai manager e agli azionisti, ovverossia gli altri creditori. Tra azionisti e obbligazionisti si instaurano conflitti di interesse soprattutto quando l’azienda versa in condizioni di financial distress , come nel caso in cui sia fortemente indebitata. Questa circostanza incentiva il management ad assumere decisioni non orientate al benessere dell’impresa, come intraprendere progetti ad alto rischio (riskshifting), non investire in progetti con NPV positivo (underinvestment), o ancora prosciugare gli asset aziendali (milking the property).
Alcune possibili vie d’uscita dai costi aggiuntivi prodotti dai problemi di agenzia legati all’indebitamento si riconoscono nelle clausole contrattuali a tutela dei

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creditori finanziari (covenants), nell’aumento del grado di concentrazione del debito, nell’utilizzo di appropriate tecniche di placement degli strumenti finanziari, nel ricorso al debito con garanzie reali o al leasing (Dallocchio e
Salvi, 2005). Vi deve essere, in sintesi, un equilibrio tra i costi e i benefici associati al debito, al fine di massimizzare il valore dell’impresa (Myers, 1984).

2.4.4 Remunerazione ed incentivi ai manager.

Ad un elevato numero di incentivi destinati ai top executives, corrispondo alti livelli di performance aziendale (Jensen e Meckling, 1976). La remunerazione manageriale deve tener conto di una tale relazione: essa associa, in tal senso, ad una quota parte di salario fisso, bonus basati sulle performance, stock options e piani di incentivazione a lungo termine (Long-term Incentive Plans)
(Murphy, 1998). Baker, Jensen e Murphy (1988) sostengono che se l’entità del salario determina in quale azienda il manager preferirà lavorare, la struttura retributiva indicata nel contratto definisce, invece, quanto lo stesso si impegnerà per tutta la durata dell’impiego (Baker, Jensen e Murphy, 1988).
Strutture retributive efficaci spingono il manager a prendere decisioni massimizzanti il valore dell’azienda, al minor costo possibile per gli azionisti.


Salario. I salari dei top executives sono determinati sulla base di analisi del mercato del lavoro manageriale; si tiene, inoltre, conto di altri fattori quali la dimensione aziendale e la posizione del manager nella gerarchia
(Jensen e Murphy, 1990). Tuttavia, l'equilibrio nei managerial labor markets sarà di impedimento a grandi tagli salariali per i manager scarsamente performanti: pertanto, questo meccanismo sarà inefficace a dare ai manager sufficienti incentivi a prendere decisioni massimizzanti il valore aziendale (Jensen e Murphy, 1990).



Bonus. I bonus calibrati sulle performance, invece, sono un importante meccanismo di allineamento tra gli interessi dei manager e quelli degli

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azionisti. I primi, infatti, sono incentivati a performare al meglio e i nell’interesse della società, poiché dall’osservazione dei risultati contabili viene stabilita

l’entità

del

bonus

che

riceveranno.

Tuttavia,

una

retribuzione per i manager basata sulle voci di bilancio può costituire un incentivo per la dirigenza a manipolare le stesse e a favorire progetti profittevoli nel breve termine, scartando quelli con Net present value positivo nel medio-lungo (Jensen e Murphy, 1980). I bonus basati sulle vendite, ad esempio, potenziano la ritenzione degli utili e la crescita dimensionale dell’azienda, e ciò non sempre tutela i guadagni degli shareholders. •

Stock options. Le stock options sono delle opzioni di tipo call che costituiscono una buona parte della remunerazione variabile dei dirigenti d’azienda: questi ultimi ricevono le azioni dell’impresa in cui lavorano ad un prezzo quasi nullo, o in alcuni casi gratuitamente, ed hanno la possibilità di esercitare l’opzione entro una data specifica, qualora il suo prezzo (strike price) sia maggiore del valore di mercato attribuito all’azione stessa. A sostegno dell’uso di opzioni sulle azioni della società come remunerazione dei dirigenti vi è il fatto che queste creano uno stretto legame tra l'andamento del titolo e le performance dell’esecutivo.
La remunerazione tramite stock options è, infatti, un "costo" che il CEO e gli altri dirigenti devono sostenere perché può oscillare a seconda della performance aziendale. Aumenti di prezzo delle azioni, che sono guidati dalle informazioni possedute dagli investitori circa i futuri guadagni dell’impresa, si traducono direttamente in ricchezza per il CEO: egli, in teoria, è più incentivato ad impegnarsi in attività che aumenteranno i guadagni futuri dell'azienda, poiché da queste deriva un aumento del suo patrimonio personale, attraverso l'apprezzamento delle azioni detenute
(Hoskisson, Castleton, Withers, 2009). Tuttavia, altri studiosi hanno

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sottolineato come stock options e benessere degli shareholders non siano sempre positivamente correlati. Gli incentivi tratti dalle opzioni non sono gli stessi che i top executives ricavano dalla stock ownership: il diritto ad acquistare azioni della società in futuro non include la partecipazione alla distribuzione dei dividendi nel presente, dunque i manager in possesso di stock options potrebbero rimandare il più possibile la distribuzione di dividendi agli azionisti, dando la precedenza al riacquisto dei titoli, o ancora investire in progetti rischiosi, spinti dalla volatilità del prezzo delle azioni (Murphy, 1998).


LTIP (Long-Term Incentive Plans). Un ultimo metodo di remunerazione dei dirigenti è costituito dai piani di incentivazione a lungo termine
(LTIP). Essi assumono, in genere, forme diverse, specialmente premi in azioni della società per il raggiungimento di obiettivi di rendimento nel lungo periodo (come, ad esempio, la crescita dell’indice EPS – earnings per share – al di sopra di una determinata percentuale entro 5 anni).

2.4.5 Il controllo del mercato. Le acquisizioni occorrono in risposta a malfunzionamenti dei meccanismi di monitoraggio interni, in aziende con elevata disponibilità di flussi di cassa e inefficienti politiche organizzative; società in cui il management, in sostanza, sta gestendo le risorse disponibili in maniera inefficiente. Più basso è il prezzo di mercato dei titoli rispetto a quello che sarebbe stato con una migliore gestione, più interessante è la società per coloro che hanno la possibilità di acquisirla (Fischel, 1978). Il mercato del controllo societario può, in tal senso, servire a trasferire il controllo degli asset aziendali a manager più efficienti
(Jensen, 1986); inoltre, i top executives, temendo di perdere il posto a seguito di un’acquisizione, sono incentivati a priori ad investire i free cash flows in

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progetti il più possibile redditizi, e, di conseguenza, a tutelare gli interessi degli azionisti. 2.5 L’impatto sul valore aziendale: l’esempio dell’over-­‐investment Quando un management inefficiente, operante in un’azienda caratterizzata da una governance debole, ha a sua disposizione elevati flussi di cassa, tende a sperperare questi ultimi investendo in un numero spropositato di progetti, alcuni con NPV negativo, altri con NPV pari a zero, a discapito di impieghi più profittevoli. E’ con il termine over-investment che si fa riferimento a tutte quelle spese, derivanti da progetti di investimento, che superano quanto necessario a mantenere le attività aziendali e finanziare nuovi investimenti con
NPV positivo (Richardson, 2006). Le imprese maggiormente colpite dal problema, di norma, sono mature e di grandi dimensioni (sia in termini di asset, che di capitalizzazione del mercato) (Franzoni, 2008).
Si consideri un’impresa di valore atteso V (di poco superiore al valore nominale del debito D), caratterizzata da meccanismi di governance inefficienti e dalla presenza di un’elevata disponibilità di flussi di cassa. V è, inoltre, il valore medio di due possibili risultati equiprobabili Y e Z, tali che P(Y)=0.5 e
P(Z)=0.5. Si assuma che Y

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