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Excursus Sulle Ombre - Dal Rito Al Teatro

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Giulia Pellegrino

EXCURSUS SULLE OMBRE: DAL RITO AL TEATRO

Il motivo per cui molti studiosi credono che l’arte figurativa nell’Islam sia proibita (o quantomeno tollerata solo fra i musulmani sciiti) è da attribuirsi a un errore d’interpretazione del divieto profetico riguardante la produzione d’immagini antropomorfiche, cioè di oggetti che, costruiti o rappresentati dall’uomo, pretendano di gareggiare con l’opera di creazione divina. Dunque il teatro sarebbe per principio una manifestazione blasfema: l’uomo rinuncia alla propria identità, donatagli da Dio, per imitare in tutto altre persone. In realtà la questione sulle arti figurative è molto più complessa. La motivazione che sta dietro ai detti profetici1 che hanno determinato la legge dell’irrapresentabilità non era quella di scoraggiare la creatività artistica bensì di evitare l'idolatria. Per chiarire il concetto si può far riferimento al pregiudizio
Platonico nei confronti delle arti: secondo il filosofo, esse produrrebbero nella realtà materiale copie imperfette rispetto all’Idea originale, dunque allontanerebbero dal Sommo Bene. Le arti, in questo caso, sarebbero equiparabili alle ombre del mito della caverna: fonti di fraintendimento e doppi ingannevoli che bloccano l’accesso al Vero. Ma queste considerazioni potrebbero anche essere rovesciate: proprio perché l’artista ha davanti a se l’ostacolo fisico, tende a superarlo e a restituirlo nell’opera a una forma universale che lo riaccosti all’idea. A questo punto l'arte figurativa può inserirsi perfettamente nell'universo dell’Islam e partecipare direttamente all'economia spirituale della religione a patto che non superi determinati limiti.
Tali limiti sarebbero dati dal produrre immagini a tutto tondo che imitino il processo creativo divino. È allora vietato il teatro mimetico-naturalistico, ma non sono vietate quelle pratiche spettacolari, collegate al culto o all’intrattenimento, che rinuncino a creare persone illusorie dotate di carattere ed evoluzione psicologica. Se allora il cosiddetto “teatro all’italiana” farà la sua comparsa solo nel XIX secolo, in un contesto di grandi trasformazioni politiche, sociali e culturali2, il mondo arabo classico è un fiorire di pratiche spettacolari (da molti studiosi definite “minori”) che per secoli (e talune ancora oggi, come la ta’ziyah3) hanno animato le feste popolari o la vita delle corti. Una di queste forme teatrali dell’epoca classica è il khayāl al-ẓill, “teatro delle ombre” (letteralmente: “illusione/figura delle ombre”, da khayāl “figura, illusione, profilo”, e ẓill
“ombra”) conosciuto anche come škhūṣ al-khayāl (“personaggi di finzione”) o ṭ īf al- khayāl (“spettro della fantasia”) o ancora come khayāl al-sattār (“immaginazione della tenda”) . il teatro delle ombre ha origini antichissime tantoché risulta praticamente impossibile datarne un vero e proprio atto di nascita; basti pensare che la funzione dell’ombra si ritrova in diversi rituali notturni sciamanici, laddove il sacro fuoco le alimenta con sembianze di spiriti4. Di fatti il teatro delle ombre, in Indonesia e altrove, nasce proprio dal culto dei morti, dove, conservando le sue funzioni rituali, mediatiche e iniziatiche, rimane comunque una pratica destinata al divertimento. Nel mondo arabo fa la sua comparsa nel XII secolo probabilmente importato dal Sud-Est dell’Asia o dall’India grazie all’intensa attività commerciale che metteva in contatto questi territori. Tale genere di spettacolo consiste nel manovrare da dietro un drappo chiaro ben illuminato, delle figure mosse con delle bacchette, e accompagnare il movimento delle ombre proiettate
1

Ad esempio il detto del Profeta "quelli che saranno puniti più severamente da Dio nel giorno del Giudizio saranno i pittori e gli scultori”.
Cfr. M. RUOCCO , storia del teatro arabo. Dalla naḥdah a oggi, Carocci, Roma 2010, p.17.
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Cerimonia funebre, praticata soprattutto in ambiente sciita, che riporta il martirio dell’imam ḥusayn, nipote del profeta, ucciso il decimo giorno del mese di Muḥarran del 680 a Kerbela, 102 km a sud di Bagdād. Oggi la messa in scena è rappresentata in villaggi e quartieri cittadini dove il pubblico viene interamente coinvolto nella rappresentazione.
4
Cfr. R. TOMASINO, storia del teatro e dello spettacolo, Palumbo, Palermo 2004, p.75.
2

con testi recitati o improvvisati, che alternano prosa e poesia, essenzialmente in ‘ammiyya. L’articolazione delle figure è semplice ma efficace: consistono di una parte centrale rigida, comprendente le gambe, sulla quale s’innestano le parti mobili della testa e delle braccia. In genere le figure sono alte 30 cm, e il tutto è supportato da un’asticella di legno di circa 15 cm, mentre le parti mobili vengono governate attraverso bacchette metalliche. Le figure sono fatte di pelle di cammello irrigidita e finemente stirata o pelle di pesce, entrambi materiali translucidi che permettono alla luce prodotta da una grande lanterna a olio alle loro spalle di trapassarle e proiettare le loro immagini colorate sul grande telo giallo, dall’altra parte del quale si trovano gli spettatori. Lo spettacolo, pur sostenendosi sul binarismo ombra e luce, risulta dunque fantasiosamente colorato e arricchito anche da alcune sagome fisse che non riproducono personaggi ma costituiscono elementi del paesaggio – fiori,piante,monti,palazzi-. Accanto a questa bozza di scenografia, possono anche venir proposti degli effetti speciali con l’aiuto del fumo, del fuoco o di rumorosi rombi simili a tuoni. Ad animare i personaggi è il khayālī o il mu’allim (i maestri burattinai), che interpretano tutti i ruoli dello spettacolo, imitando i suoni, i dialetti e i timbri vocali dei vari personaggi. Normalmente il khayālī è assistito da un apprendista che lo aiuta a montare e smontare la scena e gli porge i vari personaggi al momento giusto, ruolo che può anche essere svolto da un sandikkar (da “sandik”, cofano)5. Altri collaboratori possono essere cantanti o musicisti, in genere suonatori di flauto o tamburello. Questi sopra elencati sono tutti gli elementi tipici che permettono la realizzazione uno spettacolo del khayāl al-ẓill.
Sin dalla nascita di questo antico genere teatrale, è sempre esistita una stretta correlazione tra il mondo reale e il mondo delle figure, che appare come un microcosmo simbolico: lo schermo rappresenta il cielo, la lanterna sta in luogo del sole, le ombre , in definitiva, non sono che gli uomini stessi e il khayālī, che anima le sue figure, riproduce il rapporto del creatore con l’umanità; creatore che sta al di là del telo, in uno spazio dunque inaccessibile, negato da quello che rappresenta l’ingannevole mondo terreno.
La maggior parte delle opere del khayāl al-ẓill seguono una simile struttura: cominciano con una danza e terminano o con una canzone gioiosa o con una movimentata battaglia. Nel prologo iniziale il khayālī rivolge una preghiera a Dio, al profeta Muhammad e ai suoi discendenti e successivamente passa a presentare la sua opera citando anche tutti coloro che hanno contribuito nel realizzarla. Le preghiere giungono anche alla fine della performance per ringraziare Dio di aver concesso al khayālī la forza adatta per offrire una buona rappresentazione. Tali preghiere, sempre e costantemente presenti, dimostrano come , accanto al significato allegorico di questo genere teatrale, le sue opere siano ricche di tematiche islamiche. Di fatti è possibile assistervi soprattutto in occasione di feste religiose o durante il mese del ramaḍān , all’interno delle khanāt (“taverne”). Sebbene il pio cancelliere di Saladino, al-Qali al-Fadil, vi riesca a cogliere un qualche messaggio mistico (le sue parole all’uscita della rappresentazione pare siano state: “ne ho colto un insegnamento di grande valore. Ho visto imperi nascere e dissolversi, e quando il fondale è stato rimosso, ho scoperto che era uno solo, l’intento primo”6), la maggior parte delle storie venivano recitate per auditori popolari7 risultando spesso essere volgari buffonate che mettevano in scena ruffiani, cornuti, giullari, masticatori di hashish e galli-galli8. Ma a dispetto di questa sua natura triviale, l’arte immaginifica e illusionistica del teatro delle ombre fornì un ampio patrimonio di metafore alla poesia mistica. 5
6

Nominazione tipica del teatro d’ombre turco: il Karagöz.

Si veda P. KAHLE, The Arabic Shadow Play in Medieval Egypt (Old Texts and Old Figures), in “Journal of the Pakistan Historical Society”, 1954, p.85115.
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Rientrando tra le farse spettacolari d’intrattenimento e presentando, di conseguenza, un saldo legame con il tempo della festa, riservato allo svago e al divertimento, le storie delle ombre vengono considerate alla stregua dell’ ’adab al-hazl (letteratura piacevole d’intrattenimento).
8
I galli-galli erano prestigiatori specializzati nel far apparire, scomparire o trasformare piccoli animali sotto tre coppe rovesciate. Il loro nome deriva dall’espressione con cui questi chiamavano il pubblico intorno a sé. In dialetto egiziano galli-galli vuol dire letteralmente “vieni da me, vieni da me”.

I più rari e antichi esempi, se non gli unici, di scrittura teatrale sul genere sono i testi del commediografo delle ombre Ibn Dāniyāl. Essi offrono un limpido ritratto sugli artisti di strada e su quella che poteva essere la vita popolare nell’Egitto del XIII secolo. Originario di Mossul, Ibn Dāniyāl (1248-1311) vive nel quartiere popolare di Bāb al-Futūḥ dove esercita in strada il mestiere di oculista. Si perfeziona nell’arte dello scrivere insieme al poeta ‘Uṯmān b. Sa’īd al-Fakhrī al-Miṣrī (XIII sec.)9, scrive un dīwān e tre componimenti in metro raǧaz , di cui uno sull’ottica e uno sui giudici egiziani. Conquista i favori del futuro sultano Malik al-Ašraf per il quale compone gran parte delle sue opere. Fu un autore molto colto che unì alla sapienza medica le conoscenze del Kātib10.
L’opera di Ibn Dāniyāl è divisa in tre parti, di cui la prima e la terza sono simili alla maqāmah11, mentre la seconda è riconducibile allo schema della qaṣīda sasāniyya12. La prima pièce per cui è noto è ṭayf al-khayāl
(l’apparizione) , un’opera che si presenta come la parafrasi ridicolizzata della tradizionale qaṣīda. Come nella poesia classica il protagonista, il mamelucco ‘Amīr Wiṣāl (il principe dell’unione) è reduce da un viaggio e, insieme al pubblico che condivide la sua particolare odissea, fugge dall’Iraq invaso dai mongoli;
Ma i luoghi del ricordo non sono le dune desertiche o le tracce dei suggestivi accampamenti, bensì una collina coltivata a cannabis (hashish) e le gozzoviglie di personaggi avidi di birra, miglio e vino. Wiṣāl vorrebbe ricorrere al matrimonio per porre fine alla sua vita dissipata e chiede aiuto a ‘Umm Rašīd, un’anziana ruffiana. Purtroppo, una volta sollevato il velo alla sua sposa, Wiṣāl si accorge che questa è ben lungi dall’essere la donna da sogno che la mezzana gli aveva promesso. L’inganno rimarrà impunito perché
‘Umm Rašīd muore prima che la vendetta si realizzi, e il suo corpo verrà deturpato da escrementi e da quanto di più impuro c’è per l’islam13. infine il protagonista, per fare a menda dei peccati commessi in passato si reca alla Mecca. Altra opera è ‘Aǧīb wa Gharīb, dal nome dei due protagonisti14, galleria di ritratti che ricalca la struttura iniziale delle maqāmāt di Hamadhānī: il racconto è riferito dai due trasmettitori sul modello dell’ ’Isnād, mentre l’intreccio è costituito da una sfilza di personaggi tra le specie più abiette dell’habitat del mercato. I personaggi appaiono uno dopo l’altro davanti la porta Zuwayla, si tratta di eroi della vita quotidiana del mercato, la maggior parte dei quali figurano già in opere di Abū Dulāf (X sec.) e ṣafi al-Dīn al-ḥillī (m. 1349), entrambi redattori di due diverse versioni della qaṣīda sasāniyya. Ma l’innovazione di Ibn Dāniyāl sta nell’affiancare ai saltimbanchi e agli impostori figure più rispettabili quali medici e speziali, e di arricchire i vari e lunghi dialoghi con un dettagliato linguaggio scientifico. Gharīb
(letteralmente “strano”), è uno stregone ciarlatano che si avvale di tutti gli inganni tipici delle maqāmāt: simula attacchi epilettici per ricevere l’elemosina, s’incolla le palpebre per fingersi cieco, ammaestra delle scimmie, si fa vanto di esser capace di altre equivoche prodezze. Poi c’è ‘Aǧīb (letteralmente
“meraviglioso”), un predicatore che dispensa sermoni con il solo intento di far del bene alle sue tasche. A questi due si susseguono tutti gli altri personaggi di cui viene fatto un arguto ritratto: l’incantatore di serpenti, l’erborista, il chirurgo, il venditore di amuleti, il mangiatore di spade, ammaestratori di animali
(orsi, scimmie ballerine, cani, leoni, serpenti, gatti, topi, ecc), il falso pellegrino e il lanternaio mendicante.
Alla fine della sfilza di personaggi riappare Gharīb, il protagonista, che conclude l’opera scusandosi per quanto ha narrato e annunciando la sua prossima partenza per il pellegrinaggio alla Mecca. Se alcuni
9

Cfr. F. M. CORRAO, Quaderni di Studi Arabi, Nuova Serie, Vol. 3, 2008, pp. 121.

10

Il Kātib è letteralmente il “segretario di cancelleria”, ovvero colui che in epoca classica avesse il compito di vergare per iscritto nei registri
(dafātir) gli atti amministrativi d'una entità istituzionale musulmana in periodo classico, che poi conservavano nel dīwān. poiché il Kātib doveva padroneggiare alla perfezione la lingua araba, oggigiorno il termine ha assunto il significato generico di “scrittore”.
11
Il termine, traducibile con assemblea, seduta o riunione, si riferisce a un genere letterario sorto nel X secolo che consisteva in brevi narrazioni comiche in prosa rimata e ritmata, che riprendono la struttura binaria del khabar.
12
Lungo componimento che esalta le doti dei viandanti noti come i Bānū Sāsān le cui specialità erano gli intrattenimenti illeciti; cfr. C.E. Bosworth, the medieval Islamic Underworld, Brill, Leyden 1976; al Hamadhānī. Le maqāmāt, op. cit.
13
Cfr. F. M. CORRAO, la fantasmagoria delle ombre di Ibn Dāniyāl, tesi di dottorato di ricerca, Università di Roma “la Sapienza” 1990, p.110.
14

Personaggi tratti da un racconto di ‘Alf layla wa layla.

studiosi si sforzano per rilevare, tra la descrizione di una professione e l’altra, un celato carattere autobiografico, molti altri concordano sull’importanza del materiale storico che ci giunge con quest’opera: risulta evidente che il momento ludico occupava un posto preminente nella vita dei mamelucchi, e attorno a questo gravitava un’intensa attività regolata dalle corporazioni, che comprendevano professionisti quali musicisti, cantanti, marionettisti, saltimbanchi, trapezisti ed equilibristi. Nella terza delle commedie superstiti di Ibn Dāniyāl, al-Mutayyam (“lo schiavo d’amore”), compaiono al-Mutayyam e al-Yatīm. Il primo personaggio soffre perché è stato abbandonato dal secondo, uno schiavo turco, ma grazie al servo di questi, tra i due si organizza una sfida che consiste in tre combattimenti di animali e si conclude con un banchetto. Vengono anche messi in scena tutta una serie di personaggi dediti a ogni tipo di perversione sessuale; l’ultimo di questi, un ingordo, è inseguito dalla morte e alla sua dipartita l’intera compagnia assisterà contrita al funerale espiatorio per poi dissolversi.
L’opera di Ibn Dāniyāl va letta su tre differenti livelli di analisi: ad un primo livello il tema centrale risulta essere l’universalismo comico della festa popolare; ad un secondo livello si comincia a cogliere l’accento intellettuale dell’autore, è un uomo di scienza e cultura che dietro un leggero velo di fantasia maschera una realtà di cui conosce bene gli ambienti, i protagonisti e il linguaggio; arrivando a un terzo livello di analisi,
Ibn Dāniyāl si svela per quello che è: un sagace ideologo che ritrae nei suoi lavori la crisi del sistema politico e sociale del suo tempo. La sua opera s’inscrive nella nuova cultura, segnata dalla fine dell’impero califfale abbasside e dallo scontro con l’occidente. Le immagini che ispirano il poeta non sono dunque le gesta eroiche contro i Bizantini, come imponeva la retorica di corte, ma la battaglia per la sopravvivenza nella dura realtà quotidiana, segnata da fame ed epidemie. Se allora le lunghe e dettagliate descrizione dell’autore si soffermano sui giochi degli imbonitori, sullo svolgimento delle feste o sulla briosa atmosfera del mercato, è solo perché il divertimento e l’allegria sono considerati la risposta della vita alla generale atmosfera di morte che aleggia tutt’intorno. La satira non risparmia nessun campo dello scibile umano, tantoché la visione della vita appare in tutte le sue sfaccettature come eccessiva e straripante. I discorsi si alto livello vengono scherniti e abbassati nel mondo dei bisogni materiali del corpo; anche la scienza e la religione vengono costantemente prese di mira e una delle novità di queste opere sta nel fatto che l’autore agli imbonitori e ai parassiti vari accosta una categoria rispettabile come quella dei medici, anch’essi presentati come truffatori o impostori. Ibn Dāniyāl, avendo un piede nel mondo del sapere “alto”, quello della medicina araba e greca, e uno in quello del sapere “basso”, ovvero quello della tradizione comica popolare, riesce a girovagare tra questi due universi donando alla sua opera una sintesi perfetta tra l’hazl (il
“divertente”, il “futile”) e il jidd (il “serio”, l’“utile”). Sebbene Ibn Dāniyāl registri la sepoltura della cultura di una civiltà morente (l’epoca storica è infatti segnata da fermenti culturali e radicali sconvolgimenti politici) ne annuncia la rigenerazione grazie all’ambigua fecondità del suo riso, al suo carattere positivo, rigeneratore e creativo più volte ribadito e sottolineato.
Nonostante Ibn Dāniyāl sia l’autore che segna l’apice di questo genere minore, che trova la sua fortuna nel medioevo, la storia del khayāl al-ẓill non termina con lui ma continua fino ai giorni nostri. A partire dal XVI secolo nell’impero ottomano si diffonde il karagöz –o teatro delle ombre turche- (che prende il nome dal personaggio principale, letteralmente “occhio nero”). Il tema centrale di queste commedie sono i contrasti fra i due protagonisti: Karagöz rappresenta l'uomo del popolo, illetterato e diretto, mentre Hacivat appartiene alla classe istruita, e si esprime in un linguaggio letterario. Lo spirito semplice ma arguto di
Karagöz ha sempre la meglio sull'istruzione di Hacivat, anche se i suoi espedienti per arricchirsi inevitabilmente si traducono in un fallimento15. Non si conosce l’esatta origine di questa forma teatrale; molti sostengono che i primi spettacoli di Karagöz furono realizzati in Egitto sotto il regno di Selim I (151215

Cfr. E.ALOK, Karagöz-Hacivat: The Turkish Shadow Play, Skylife – Şubat (Rivista delle Turkish Airlines), Febbraio 1996, p. 66–69.

1520), altri li collocano sotto il regno di Bayezid I (1389-1402), oppure gli attribuiscono origini leggendarie16.
La rappresentazione e l’animazione di figure antropomorfiche è un fenomeno universale probabilmente di origine religiosa e si suol individuare il punto di nascita del teatro di figura17 in India, dove se ne trovano tracce risalenti all’XI secolo a.C. di fatti, pare che l’antenato di Karagöz, sia proprio il personaggio principale del Ramayana (teatro d’ombre indiano) ovvero Vidouchaka: nano, gobbo con denti enormi e occhi gialli, completamente calvo. Questo ciarlone volgare, picchiatore inesorabile sarà il prototipo dei pulcinella di tutto il mondo18. Karagöz stesso è molto simile a Pulcinella per il carattere allegro, furbo e violento e anche per l’aspetto fisico, sottolineato dall’occhio nero e dalla calvizie sotto il berretto. Entrambi sono sempre alla ricerca di cibo e le sue avventure riguardano il più delle volte un modo per sbancare il lunario. Oltre al suo raffinato compagno Hacivat, questo genere di spettacolo presenta tanti tipi interessanti: quali ad esempio
Tiryaki, l’anziano annusatore di tabacco, Herbeuchi, il bambino sciocco del quartiere, Dansoz, la seducente danzatrice del ventre o Macar Dansoz, il focoso danzatore ungherese.
Nel mondo islamico un altro popolare teatro delle ombre è quello persiano, che forse preesisteva in forme autonome antichissime e di certo conosceva l’uso della lanterna magica cinese. Il tipo principale era Kecel
Pehlivan, un altro tipo comico che si fa burla dei divieti e delle prescrizioni ufficiali e il cui unico scopo è realizzare questo paradiso di piaceri carnali. Nomadi kurdi, mongolici, gli animatori d’ombre che girovagavano da città in città, da una fiera all’altra e che venivano suggestivamente chiamati sheb-bāz
(giocatori della notte) contribuirono a portare le ombre in tutto il mondo islamico, fino ai Balcani e alla
Spagna. Come si è visto sopra, fu in Egitto che questi spettacoli trovarono terreno fertile, grazie anche a Ibn
Dāniyāl che realizzò delle vere e proprie piéces. la forte critica all’autorità politica che accomunava questi spettacoli, insieme al loro laicismo e alla loro popolarità spinse nel XV secolo il sultano Tschakmak ad ordinare che marionette e figure delle ombre fossero messe al rogo colpevoli di trasgressione verso il
Corano. nonostante le censure da parte degli imperatori Ottomani e delle potenze europee, si è più volte guardato indietro verso questo genere considerandolo come fulcro di una percezione più propriamente
“araba” dell’espressione drammatica. Quando nel novecento molti autori cercano di rappresentare la realtà del loro paese ricorrono alla rilettura del proprio patrimonio culturale, al-turāṯ, al fine di formulare un teatro autenticamente arabo e popolare19. Se già con Tawfīq al-ḥakīm, nel suo ṭa’ām li-kull fam (cibo per tutte le bocche, 1963) si ha qualche richiamo alle ombre (i personaggi e il pubblico a un certo punto della narrazione si ritrovano a seguire la vicenda di alcune figure che appaiono nel muro), è Yūsuf Idrīs che individua nel khayāl al-ẓill e nel karagöz i generi teatrali a cui gli autori moderni devono guardare per modellare un teatro che esprima, nello stesso tempo, una ricerca verso il passato e un rinnovamento20.
L’ombra è un elemento misterioso che ha accompagnato la storia dell’uomo sin dagli albori e che continuerà ad accompagnarlo finché esisterà il sole. Essa è diventata teatro sin da quando i gruppi di paleolitici si riunivano nelle caverne e osservavano con meraviglia le loro sagome create dal fuoco dei falò danzare sulle pareti rocciose. Il teatro delle ombre ha dunque attraversato i secoli fino a giungere ai giorni nostri dove in alcuni paesi continua a persistere nelle sue forme originali o in forme che lo richiamano, destinate soprattutto a un pubblico infantile (libri delle ombre, teatrini, ecc.). C’è anche chi ha voluto vedere nel cinema l’evoluzione più moderna di questo tipo di spettacolo. Uno dei primi cartoni animati
16

Una leggenda vuole che gli stessi personaggi di Karagöz e Hacivat siano stati ispirati a due lavoratori che partecipavano alla costruzione della mosche a Bursa sotto Orhan I (1326-1359). Si racconta che i continui contrasti tra i due lavoratori divertissero i colleghi ma allo stesso tempo rallentassero i lavori, così entrambi furono condannati a morte dal Sultano. Poco dopo questi, annoiato, decise d’improvvisare un telo su cui proiettare tramite una lampada a olio le figure dei due personaggi per far rivivere le loro divertenti discussioni.
17
Forma d’arte teatrale che ricorre all’uso dei burattini, delle marionette, dei pupazzi, oppure, per l’appunto, delle ombre.
18

Cfr. R. TOMASINO, storia del teatro e dello spettacolo, Palumbo, Palermo 2004, p.92.

19

Cfr. M. RUOCCO , storia del teatro arabo. Dalla naḥdah a oggi, Carocci, Roma 2010, p.100.

20

Cfr. M. RUOCCO , storia del teatro arabo. Dalla naḥdah a oggi, Carocci, Roma 2010, p. 101

della storia, le avventure del principe Achmed, di Lotte Reiniger, del 1925, è stato realizzato proprio utilizzando ritagli di ombre colorate. Le ombre, essendo da sempre rito e spettacolo, hanno offerto spunti essenziali, fantasie irripetibili e metafore coloratissime.

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